Gli Oasis contro il rock politico
«U2 e Coldplay, siete inutili»
Noel Gallagher: «Assurdi appelli per i poveri negli show kolossal». Sulle droghe: «Non rinnego il passato»
Noel Gallagher
Noel Gallagher
DAL NOSTRO INVIATO
EDIMBURGO — Per un po' di tempo non sentiremo più parlare degli Oasis. Cinque anni, forse di più. Se il gruppo inglese è pronto ad entrare in stand by causa logoramento, impossibile pensare che si fermi la lingua più tagliente del rock, quella di Noel Gallagher, mente e chitarra della band.
Dalle vetrate di un ufficio del Murrayfield, lo stadio del rugby di Edimburgo, il 42 enne guarda il prato riempirsi di fan (saranno 55 mila alla fine), lancia uno sguardo paternalistico al palco dove suonano gli Enemy che lui stesso ha scelto per aprire la serata e fa il punto: sul futuro suo, del gruppo e del rock, sull’inutilità delle rockstar impegnate alla Bono e Chris Martin, sulla politica inglese.
Chiudete il tour alla Fiera di Milano-Rho del 30 agosto e annunciate un fermo di 5 anni: i fan temono il peggio...
«È solo un numero, avrei potuto dire dieci... ma gli Oasis non si scioglieranno. È soltanto che in questo momento non vedo cosa potremmo fare ancora. Tour più grandi? Più soldi? Ho bisogno di qualcosa di diverso per tenere vivo il mio interesse».
Ha già pianificato un album come solista?
«No, no. Il mio ideale sarebbe entrare in un’altra band, suonare la chitarra e non dovermi preoccupare di cantare e di scrivere canzoni».
Come vanno le cose fra lei e suo fratello?
«Come sempre. Possiamo far funzionare gli Oasis senza per questo dover essere i migliori amici. Jagger e Richards non lo sono di certo».
Non sono nemmeno fratelli.
«Capisco che la gente lo trovi affascinante, ma per me è noioso. Inutile dire bugie, raccontare che andiamo d’accordo. Fino a che funzioniamo va bene ».
Durante la vostra assenza nasceranno i nuovi Oasis?
«Per come è il music business oggi non penso che ci sarà una band grande come noi, che vende così tanti dischi».
Cosa avete di diverso?
«Questione di tempi: siamo arrivati molto prima di Internet, ipod e cellulari. Se partissimo domani avremmo già un sito, Facebook, dovremmo regalare musica... Quando abbiamo iniziato, se volevi sentirci dovevi essere dove suonavamo. Quando è uscito il primo album non esistevano i masterizzatori, dovevi comprartelo. C’era il passaparola e così si realizzava il contatto con il pubblico. Oggi qualcuno filma un concerto col cellulare e in diretta lo manda all’amico in Brasile... Pare che alla gente basti vedere gli spettacoli su Internet».
Perché la gente viene a vedervi?
«Noi saliamo sul palco e suoniamo. Sono stato a tanti concerti negli stadi: tutti parlano di politica e nessuno suona. Eppure la gente è lì per la musica. In uno show di U2 o Coldplay c’è sempre un messaggio sui poveri o sulle persone che muoiono di fame. Va bene, ma non possiamo solo passare una bella serata? Ci dobbiamo sentire per forza in colpa? Pensiamo poi ai palchi semoventi, al second stage per il set acustico... tutto questo non ha senso. Preferiremmo suonare nei club, ma troppe persone rimarrebbero fuori. Non siamo come gli U2 dove tutto diventa un affare di congegni. Non voglio dire che la loro carriera dipenda dal palco spettacolare, ma non è quello che facciamo noi».
Che rapporto ha con la tecnologia?
«Se avessi 15 anni, avrei un computer e sarei su Facebook. Ma non ho un computer e ci metto un’ora per un’email. Analizziamo la cosa da due punti di vista. Internet è brutta perché smette di far interagire la gente. Se portassimo tutto agli estremi, in una dimensione quasi fantascientifica, non avremmo più bisogno di andare in un negozio, in banca, alla polizia, non avremmo più contatti con esseri umani che non siano i nostri odiati familiari. Ma c’è anche una parte buona: con la gente connessa, non ci potrà essere un altro olocausto, come vediamo ora in Iran».
Hai mai pensato di aver perso il polso di quello che faceva?
«Non lo puoi dire fino a quando non ti guardi indietro. E adesso posso vedere che fra Knebworth 1996 (250 mila biglietti per due concerti ndr) e la fine del tour di 'Be Here Now' ci facevamo di troppa droga e pensavamo poco alla musica. Ma non rimpiango di averlo fatto».
Non rimpiange ma ha smesso...
«Guardo a Chris Martin che dice di non aver mai preso droghe in vita sua e penso che sia un idiota. Drogarsi è la cosa più bella dell’essere in una rockband. Fino al 1998 ci avrò speso almeno un milione di sterline, poi ho smesso perché fa male alla salute, al cervello, alla vita, alle persone che ti stanno attorno. Ma mentre la usi, tranne l’eroina che ammazza la gente e che non ho mai provato, 'mamma mia' come dite voi».
Negli Anni 90 eravate icone della cool Britannia, l’Inghilterra vincente del New Labour. Blair vi invitò a Downing Street. È finita un’era?
«Sono cresciuto con il Labour all’opposizione. Sentivo i loro discorsi su scuola e salari minimi e pensavo avessero ragione. Poi sono entrati al governo e, wow, li ho conosciuti. Col tempo abbiamo scoperto che sono come tutti gli altri: è stato come venire a sapere che non esiste Babbo Natale. Non voterò più, tanto non cambia nulla».
Andrea Laffranchi
04 luglio 2009
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